“Mentre accogliamo con favore il piano dell’ONU, non possiamo non pensare alle comunità vulnerabili sparse nel mondo. Abbiamo bisogno di una risposta globale all’emergenza.”
I campi profughi e gli insediamenti informali disseminati in tutto il mondo sono, oggi, terreno fertile per la diffusione del Covid-19. È l’allarme lanciato da Azione contro la Fame all’indomani dell’annuncio, da parte delle Nazioni Unite, di un piano di due miliardi di dollari per far fronte all’emergenza coronavirus.
“Temo che molte aree del mondo siano, allo stato attuale, come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere – ha dichiarato Simone Garroni, direttore generale dell’organizzazione –. È ormai evidente che le conseguenze di un focolaio che si sviluppa in una zona che registra una presenza massiccia di civili siano, potenzialmente, molto più gravi di quelle a cui stiamo assistendo oggi”.
Bangladesh
Nel campo profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, per esempio, 855.000 persone appartenenti alla comunità Rohingya vivono in 34 “campi di fortuna” affollati: si stima che ogni chilometro quadrato sia occupato da 40.000 persone.
Tra di esse migliaia di bambini: oltre il 40% di loro soffre di malnutrizione cronica e le percentuali di malnutrizione acuta che li riguardano sono molto al di sopra delle soglie di emergenza stabilite dall’Organizzazione mondiale della sanità. La situazione di precarietà è aggravata dalla carenza di sapone, che rende estremamente difficile il corretto lavaggio delle mani, prima regola di base per garantire una igiene adeguata in una emergenza di questo tipo.
Libano
“In Libano, invece, la priorità resta l’acqua – prosegue Garroni –. Per questa ragione, stiamo raddoppiando gli sforzi per aumentare le quantità che i rifugiati siriani ricevono, ogni giorno, negli insediamenti informali: l’acqua è il primo elemento per promuovere una corretta igiene capace di scongiurare, al nascere, la diffusione di una epidemia”. Qui, sin dall’ inizio del conflitto in Siria, nel marzo 2011, “l’oro blu” viene garantito attraverso l’utilizzo di autocisterne.
L’emergenza idrica non costituisce, però, l’unico problema. Anche in questi insediamenti, i civili vivono in spazi esigui e, in tanti, hanno sistemi immunitari fortemente indeboliti: “Le tende di tela collocate in queste aree ospitano persone vulnerabili, cinque o anche più elementi sono a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Una circostanza che può causare una maggiore possibilità di contagio da coronavirus”, aggiunge Garroni. A Bekaa, dove si trova la maggior parte dei rifugiati siriani, le condizioni igieniche, tra l’altro, non sono ottimali: molti minori e anziani, dopo un inverno molto rigido, sono infatti colpiti, frequentemente, da infezioni respiratorie o polmoniti.
La preoccupazione di Azione contro la Fame, in Libano, non riguarda solo i rifugiati: “Dopo ben otto anni vissuti come il Paese nel mondo con il più alto numero di rifugiati pro-capite – ricorda Garroni –, qualsiasi intervento per aiutare i rifugiati in questa emergenza deve anche tenere in considerazione esigenze della popolazione locale”.
Filippine
A Mindanao, nelle Filippine, i team sono impegnati, al momento, nel tentativo di rafforzare le attività di promozione dell’igiene e la fornitura di acqua sicura.
Qui, secondo l’organizzazione, la popolazione più esposta al virus è costituita “dalle migliaia di sfollati interni che vivono in campi provvisori e che dipendono direttamente dagli aiuti umanitari per sopravvivere in un contesto in cui le attuali limitazioni dei movimenti stanno rendendo difficile il nostro lavoro”, spiega Jasper Janderall, capo base di Iligan. Tale crisi è il risultato degli scontri armati tra gruppo islamici e l’esercito filippino, che ha costretto più di 350.000 ad abbandonare le loro case in cerca di sicurezza.
Il “peso” delle restrizioni sui più vulnerabili
Le misure di restrizione alla circolazione che stanno per essere adottate in molti Paesi iniziano, così, a diventare delle vere e proprie sfide per gli operatori di Azione contro la Fame.
È il caso della Colombia. Qui il Governo, per far fronte alla pandemia da coronavirus, ha dichiarato lo stato di emergenza disponendo la chiusura degli stabilimenti e il divieto di concentrazione di oltre 50 persone nello stesso luogo. I team dell’organizzazione hanno denunciato i rischi connessi alla chiusura delle mense destinate ai bambini i cui pasti giornalieri dipendevano, quotidianamente, dagli alimenti offerti. Pericolosa è anche la chiusura delle mense nell’area di confine con il Venezuela, che potrebbe incidere sulla sicurezza alimentare di migliaia dei migranti venezuelani e, in particolare, dei soggetti più vulnerabili (bambini, donne in gravidanza e anziani).
Per far fronte alla crisi, l’organizzazione intende diffondere, ulteriormente, i kit di prevenzione tra i migranti, che comprendono una soluzione antibatterica e salviette con alcool e sapone. Nel solo 2018, Azione contro la Fame ha distribuito 2,6 milioni di kit igienici; i programmi di promozione dell’igiene, lo scorso anno, hanno raggiunto 8,9 milioni di persone.
Lo staff impegnato in Colombia ha, inoltre, spiegato che “è stato rilevato, in queste aree, anche un sovraccarico della capacità di assistenza del sistema sanitario, in particolare nei dipartimenti al confine con il Venezuela, dove molti migranti vivono, letteralmente, in mezzo alla strada”. La chiusura del confine determina, tra l’altro, anche un aumento del transito attraverso sentieri illegali, privi di controlli sanitari.
Occorre una risposta globale all’emergenza
“Mentre accogliamo con favore il piano delle Nazioni Unite per contrastare il coronavirus – prosegue Garroni – dobbiamo anche essere realistici sulla portata delle sfide affrontate, ogni giorno, dalle comunità più vulnerabili. Non possiamo dimenticare la portata delle questioni che attanagliano, ancora, tanti Paesi mentre agiamo per far fronte a questa grave emergenza mondiale. Trattandosi di una pandemia globale, abbiamo bisogno di una risposta che sia, allo stesso modo, globale”.
È necessario un doppio intervento
“Per questa ragione, dovremo lavorare in due direzioni – conclude Garroni –. Innanzitutto, siamo chiamati a contenere la diffusione del virus e a sostenere le persone più colpite dalle restrizioni ai movimenti e dalle conseguenze economiche che ne derivano. La seconda grande sfida sarà quella di fare in modo che questa pandemia non eclissi totalmente l’attenzione sulle crisi non così vicine a quelle che riguardano l’Europa, ma non meno gravi in termini di sofferenza umana. MI riferisco anche alle emergenze umanitarie nello Yemen, nel Sahel o nel Corno d’Africa”.