Azione contro la Fame attiva un’unità di crisi per la gestione del Coronavirus nei Paesi di intervento.
L’epidemiologo Dieynaba N’Diaye è la Referente della ricerca e analisi di Azione contro la Fame.
Come epidemiologo, qual è la tua analisi legata a COVID-19? Quali sono le sue specificità?
Il coronavirus è una malattia infettiva particolarmente contagiosa. Il suo alto tasso di mortalità si attesta, a livello generale, dal 2% al 3% della popolazione ma fino all’8% delle persone con più di 70 anni di età. Tende a risultare più pericolosa nelle persone con diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. Inoltre gli ultimi studi condotti in Cina mostrano come quasi l’85% delle persone colpite dal virus non siano state rilevate, probabilmente perché non presentavano i sintomi della malattia pur potendo, comunque, continuare a trasmettere il virus. Si tratta solo di stime, che dimostrano quanto ciò che vediamo è solo la punta di un iceberg.
In termini di epidemia, COVID-19 è paragonabile ad altre malattie, come l’Ebola o il colera?
Il termine epidemia descrive la diffusione di una malattia, ma che si materializza in un’area limitata. Una pandemia, al contrario, certificata una diffusione della malattia in tutto il mondo per via del coinvolgimento di diversi Paesi. Le pandemie sono molto più rare delle epidemie e più difficili da controllare, perché gli sforzi non sono più concentrati in una singola area colpita.
Le emergenze Ebola o colera sono epidemie limitate a determinate regioni del mondo. Le persone affette da Ebola presentano sintomi molto gravi e non sono più in grado di vivere la propria vita normalmente: sono ricoverati in ospedale o costretti a stare a letto. I casi sono, dunque, più facilmente identificabili e isolati, impedendone la diffusione.
Il coronavirus è, invece, diverso perché si manifesta con pochi sintomi o, addirittura, con nessuno nella maggior parte dei casi: le persone non vengono “isolate”, non si recano in ospedale e, soprattutto, continuano a vivere la propria vita e i propri legami sociali. Le persone non sono consapevoli e, quindi, diffondono il virus in modo molto più massiccio.
Azione contro la Fame, come ONG, ha già affrontato questo tipo di epidemia?
Azione contro la Fame ha maturato una esperienza significativa nella gestione delle epidemie, con particolare riferimento a quelle di Ebola e di colera. L’organizzazione ha una vasta esperienza in tema WASH (attività per favorire l’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, azioni tese a promuovere l’igiene in campi e centri sanitari). Essendo una ONG che opera in emergenza, Azione contro la Fame ha anche una rilevante esperienza nella gestione delle crisi, con capacità logistiche e di coordinamento che le assegnano una forte credibilità a livello internazionale piuttosto che una competenza nella lotta alle epidemie in quanto tali (Azione contro la Fame non è una ONG impegnata in ambito medico, come MSF).
Dovremmo temere una forte diffusione nei Paesi in via di sviluppo?
Esiste effettivamente il rischio di una forte diffusione, per esempio in Africa, a causa delle relazioni commerciali esistenti con la Cina e l’Europa. Secondo l’OMS, i Paesi più colpiti in Africa sono, oggi, Sudafrica, Algeria, Senegal e Burkina Faso, con pochi decessi finora. Occorre, però tenere in considerazione che queste cifre possono essere influenzate dalla capacità degli stessi Paesi di testare i malati e di determinare, post-mortem, i motivi dei decessi.
Non sappiamo ancora in che modo il virus si diffonderà in Africa, molti fattori possono influenzarne l’evoluzione: genetici, climatici, sociologici, demografici (ad esempio, la popolazione in Africa è, in genere, molto giovane). Ciò che sappiamo è che alcuni Paesi hanno capacità di risposta limitate: sistemi sanitari meno resistenti, attrezzature mediche non adeguate, scarso accesso all’acqua, ecc. Anche l’instabilità politica di alcuni Paesi può ostacolare la risposta alla crisi.
Quali sono le loro principali sfide nella gestione di questa crisi?
Azione contro la Fame, sulla base della letteratura scientifica e secondo vari indicatori ufficiali, ha individuato alcune tra le sue missioni più a rischio: in Africa, Burkina Faso, Nigeria, Senegal; in Asia, il Pakistan.
Alcune sfide che questi Paesi affronteranno sono simili a quelle che stanno coinvolgendo i Paesi occidentali: la capacità di “testare” i malati, la tenuta del sistema sanitario pubblico, lo stato degli ospedali, la consapevolezza delle popolazioni sui virus e sulle azioni di contenimento, la protezione degli operatori sanitari. Alcune sfide, però, sono specifiche per il loro caso come, ad esempio, lo scarso accesso all’acqua, all’igiene e ai servizi igienico-sanitari, la difficoltà di porre le persone in quarantena, di isolare quelle colpite o a rischio in contesti, talvolta, di densità urbana molto elevata o in zone in cui i nonni vivono con il resto della famiglia (come accade, spesso, in Italia o in Spagna).
Le persone che soffrono di malnutrizione sono più esposte? Potrebbe esserci un legame tra COVID e la fame?
Oggi è troppo presto per affermare che le persone denutrite siano più colpite dal coronavirus, perché non disponiamo di dati sulla fisiopatologia di questa nuova malattia. Tuttavia, possiamo sostenere che le persone denutrite siano, potenzialmente, più a rischio perché il loro sistema immunitario è più fragile tanto che sono, generalmente, più “sensibili” alla contrazione di malattie infettive. Le persone che soffrono la fame sono, inoltre, anche quelle che vivono in condizioni socioeconomiche più difficili, con un accesso minore alle cure e con difficoltà maggiori nell’adottare misure di contenimento, come l’isolamento.
Qual è la preparazione di Azione contro la Fame per far fronte al virus nei Paesi in cui interviene?
Abbiamo sviluppato un’unità di crisi all’interno dell’organizzazione; il coordinamento è stato istituito sia a livello gestionale che a livello tecnico. Il monitoraggio scientifico ed epidemiologico viene effettuato regolarmente sul numero di casi rilevati nei nostri Paesi di intervento. Segnaliamo anche le esigenze delle missioni e formuliamo loro raccomandazioni operative per settore di attività. Per esempio, sensibilizziamo il personale e le persone che si trovano all’interno dei nostri centri sanitari sulla prevenzione legata al rischio di diffusione del virus con volantini e poster; forniamo alle strutture le attrezzature necessarie (maschere, gel, fazzoletti); attuiamo circuiti specifici per la gestione dei flussi in entrata e in uscita, prevedendo anche diverse sale d’attesa per malati; gestiamo, in modo appropriato, la raccolta dei rifiuti. Abbiamo, infine, richiesto fondi aggiuntivi ai donatori per finanziare una risposta al COVID-19, in Africa o in Africa occidentale.