Una corsa contro il tempo per mettere al sicuro 800mila persone nel campo profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh.
Varato un piano di emergenza per creare una “cintura di protezione” attorno al campo.
L’obiettivo: mettere al riparo la comunità Rohingya e i bambini che soffrono di malnutrizione cronica e acuta.
“Al campo profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, 855.000 civili Rohingya vivono, oggi, in 34 campi di fortuna, sempre più affollati: stimiamo che ogni chilometro quadrato sia occupato, in questo momento, da 40.000 persone”.
È l’allarme lanciato da Azione Contro la Fame che, in questi giorni, sta coordinando un contingency plan promosso per evitare che l’emergenza covid-19 varchi i confini del campo profughi di Cox’s Bazar, il più grande al mondo.
Una delle più grandi crisi umanitarie della storia
Situato a ridosso del Golfo del Bengala, in una città nota anche con il nome di Panowa, cioè “fiore giallo”, Cox’s Bazar è una vera e propria metropoli, situata in un’area estesa in cui si è consumata, negli ultimi anni, una delle più grandi crisi umanitarie della storia. Qui, infatti, a partire dal 2017, centinaia di migliaia di Rohingya hanno attraversato il confine con il Bangladesh, stanziandosi nei pressi di una spiaggia che si estende per oltre 120 chilometri. Tra di esse anche migliaia di bambini: oltre il 40% soffre di malnutrizione cronica e le percentuali di malnutrizione acuta che li riguardano sono molto al di sopra delle soglie di emergenza stabilite dall’Organizzazione mondiale della sanità. La situazione di precarietà fisica è aggravata dalla carenza di sapone, che rende estremamente difficile il corretto lavaggio delle mani, prima regola di base riconosciuta e promossa dall’OMS per garantire una igiene adeguata in una emergenza di tali dimensioni.
Un piano di emergenza per scongiurare la diffusione del coronavirus
Per far fronte alla diffusione del Covid-19, Azione Contro la Fame, grazie a uno staff di 1.248 operatori e 1.555 volontari, ha incrementato in questi giorni il numero delle attività di sensibilizzazione in tema di salute e igiene rivolti a adulti e bambini. Sono stati, inoltre, installati ulteriori punti di accesso all’acqua, che hanno potenziato il sistema di 289 luoghi di distribuzione posti a regime nei mesi scorsi. Infine, è stata predisposta una intensa operazione finalizzata alla sanificazione delle strade. Un piano di emergenza vero e proprio, coordinato in sinergia con le autorità locali, finalizzato a creare una “cintura di protezione” attorno al campo di Cox’s Bazar.
Qui, Azione Contro la Fame, negli ultimi anni, ha distribuito quasi 90mila kit di igiene e installato 4.388 servizi igienici. Ha, inoltre, supportato con attività di sostegno psicologico 151.131 rifugiati per aiutarli a superare il trauma delle violenze subite, consentendo loro di vivere meglio la loro condizione. All’interno di Cox’s Bazar, l’organizzazione serve, ogni giorno, anche mille khichuri (un piatto locale fatto di riso, lenticchie, spezie e verdure) e 1.600 pasti caldi. Sono ben undici le cucine comunitarie attive. I più piccoli, come sempre, restano i soggetti vulnerabili più monitorati: 70.274 bambini sotto i cinque anni sono controllati, ogni mese, per scongiurare casi di malnutrizione. 26.881 bambini malnutriti, inoltre, hanno avuto accesso a trattamenti nutrizionali.
Un impegno nato con i primi spostamenti massicci verso il Bangladesh
Azione Contro la Fame è intervenuta nella zona già all’indomani dell’avvio dell’emergenza-Rohingya. L’organizzazione – presente in Bangladesh già da prima per aiutare le popolazioni colpite dal Tifone Mora e dalle inondazioni nelle regioni nord-occidentali – ha promosso una serie di programmi utili per rafforzare la resilienza delle comunità e sostenere il governo locale nella lotta contro la malnutrizione acuta.
Il ruolo di Azione Contro la Fame è risultato centrale sin dall’inizio di questa vicenda drammatica. Lo staff di Mahadi Muhammad, responsabile della base di Azione Contro la Fame a Cox’s Bazar, in occasione dei primi giorni in cui si verificarono i massicci spostamenti della popolazione Rohingya, portò a spalla 10.000 razioni di acqua e di cibo preparato nelle community kitchen a chi attraversava i pochi metri di terra e fango lungo il fiume al confine tra Myanmar e Bangladesh.
“Il 4 settembre di quell’anno durante la Festa della fine del digiuno, quella in cui i musulmani celebrano la fine del Ramadan insieme alla famiglia – ricorda Mahadi Muhammad – seppi di una strage provocata da proiettili piovuti dal cielo. Trovai, in quella zona, decine di feriti e 17 cadaveri. Così, io e i miei colleghi, con ancora il vestito della festa, portammo a braccio i feriti fino alla clinica mobile di MSF. Per i morti, facemmo una colletta per acquistare i sacchi per cadavere. Chiamammo, infine, un leader locale e un Imam che per organizzare la sepoltura e una cerimonia funebre. Essere “umanitari”, per noi, ieri come oggi, vuol dire anche questo”.
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