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Spostamenti ed espulsioni, il circolo della vulnerabilità

8 Febbraio 2017

Tra luglio 2011 e giugno 2012, una forte siccità colpisce il Corno d’Africa e provoca una grave crisi alimentare in Somalia, Etiopia, Kenya e Gibuti, mettendo in pericolo di vita circa 9,5 milioni di persone. 

Molti rifugiati del Sud della Somalia fuggono nei Paesi vicini, come il Kenya. A Mogadiscio, il sovraffollamento, le condizioni insalubri e gli alti tassi di denutrizione acuta grave portano alla morte di un numero significativo di persone. 

Ibrahim Ali, 60 anni, ha vissuto parte della sua vita a Qoryoley nel Bajo Shabelle, prima di arrivare da Mogadiscio, ed è stato deportato tre volte prima di arrivare all’accampamento di Hamdi nel distretto di Deynille nel marzo 2015. 

“Quando ci hanno evacuato dell’accampamento di Maslah, nell’area di Afgooye, ho affittato un carro e un asino. Ancora il proprietario del vagone mi deve 10 dollari,” dice Ibrahim. “È come se non avessimo diritti qui. Ancora non siamo sicuri se rimarremo, sappiamo molto bene che chiunque può espellerci in qualsiasi momento.”

Ibrahim ringrazia Dio per aver benedetto a lui e i suoi figli, ma ammette anche che non ha risorse per allevarli. Quando la carestia ha colpito la Somalia, viveva già in una condizione di povertà estrema. Prima era agricoltore, ma la siccità gli ha impedito di continuare la sua attività e ha spinto tutta la famiglia all’esilio.

Inizialmente Ibrahim si stabilisce in Hodan, dopo aver perso il suo bestiame e le sue fattorie. Era riuscito a salvare alcune capre ma alla fine morirono tutte per mancanza di acqua. Nell’accampamento di Hodan, la sua famiglia riceve attenzione medica e cibo: farina, riso e complementi alimentari. Ma dopo la morte della sua seconda moglie, la vita domestica si complica ulteriormente. 

Khalif vive a Mogadiscio e lavora per una famiglia di panettieri, che lo ospita e lo paga 10 dollari al mese. Le altre quattro figlie sono sposate ma non aiutano la famiglia. Dipendono esclusivamente dagli aiuti umanitari, anche se a Ibrahim piace parlare dei mattoni di argilla che fabbrica e che vende occasionalmente per guadagnare qualcosa.

Se la sicurezza nella zona di Chebili dovesse migliorare, la famiglia ritornerà alla sua terra natale per ricostruire la propria vita e riprendere l’attività agricola. “Dipendiamo dall’agricoltura per avere una vita normale, comprare vestiti per i bambini e farli andare a scuola,” spiega Ibrahim. Le sue numerosi espulsioni hanno aggravato la sua vulnerabilità. “Con ogni espulsione ricominciamo da zero.” 

L’ultimo figlio di Ibrahim, Hassan, soffre di diarrea. Vicino all’accampamento di Maslah c’è un centro di salute per la madre e il bambino, dove la nostra squadra spiega che si possono prevenire malattie collegate all’acqua, che accentuano la denutrizione, attraverso la costruzione di pozzi che danno accesso all’acqua potabile. Inoltre sono state costruite latrine per le famiglie sfollate, con l’obiettivo di promuovere buone pratiche di igiene e creare coscienza sull’importanza dell’igiene giornaliera nella prevenzione delle malattie, e della distribuzione di kit igienici hanno beneficiato oltre 40 famiglie.

Ma nel campo dove è ora “non ci sono latrine, né acqua né beni di prima necessità che ci servono per sopravvivere,” dice Ibrahim.

Mohammud, coordinatore di Azione Contro la Fame, ha costruito una squadra di risposta rapida per la distribuzione di prodotti alimentari e non a tutte le persone recentemente dislocate dal campo di Maslah, compreso Ibrahim, con particolari attenzione ai bambini e alle famiglie esposte alla malnutrizione.

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