Questa tendenza, iniziata nel 2016, è confermata: la violenza è ormai diventata il principale fattore scatenante delle crisi alimentari. Nel 2018 c’erano 113 milioni di persone in situazione di crisi alimentare, quindi ai livelli 3 (stadio dal quale si richiede un intervento d’emergenza), 4 e 5 dei 5 previsti dalla classificazione internazionale. Di questi, 74 milioni vivono in 21 paesi in conflitto. Yemen, Rep. Democratica del Congo e Afghanistan guidano, con 40 milioni di persone in urgente bisogno di aiuti alimentari, le principali crisi alimentari del mondo.
Più attenzione alle tensioni sul controllo del territorio o dell’acqua
Mentre siamo ben consapevoli degli effetti immediati delle violenze sulla sicurezza nutrizionale della popolazione (che si traducono in spostamenti di massa, perdite di raccolti, distruzione dei mercati, strade e infrastrutture idriche) si parla sempre meno o poco del legame tra guerra e fame in senso inverso. È urgente sviluppare meccanismi di allerta subitanea per documentare casi in cui la conflittualità sulle risorse produttive o su quelle risorse naturali possa arriva innescare o aggravare guerre. Da Azione Contro la Fame questo lo vediamo quotidianamente in regioni come il Sahel o l’Africa orientale e per questo insistiamo sulla necessità di affrontare i nessi tra conflitti e la fame con un’adeguata risposta di emergenza ma soprattutto preventiva.
Ostacoli agli aiuti: attacchi e norme antiterrorismo
Negli ultimi anni, gli aiuti umanitari sono stati oggetto di frequenti attacchi da parte dei gruppi armati. Solo nel 2018 sono stati registrati 310 atti di violenza contro il personale umanitario. Ciò contravviene ai principi fondamentali del diritto umanitario internazionale: negare l’accesso agli aiuti in aree come la Nigeria settentrionale implica condannare la fame a milioni di persone ed è un altro modo di usare la fame come arma di guerra. Su un altro fronte, le nuove regole antiterrorismo che gli enti donatori e i governi mettono in atto in contesti come la Nigeria, la Siria o il Sud Sudan stanno di fatto comportando importanti limitazioni agli aiuti. Le difficoltà nello svolgimento di transazioni finanziarie in alcuni paesi per chi lì deve operare, le limitazioni sui tipi di beni che possono essere forniti o persino la richiesta degli elenchi di beneficiari (una misura che si scontra direttamente col principio di neutralità dell’aiuto umanitario, basato sulle esigenze) potrebbe avere un impatto a breve termine, aumentando così la fame nelle zone di conflitto. Azione Contro la Fame, insieme ad altre organizzazioni internazionali, sta richiedendo l’allentamento di norme di questo tipo in determinati contesti.
Trasformare in realtà la Risoluzione 2417 dell’ONU
A un anno e mezzo dall’approvazione unanime della Risoluzione n. 2417 delle Nazioni Unite su fame e conflitti, è urgente sviluppare dei meccanismi per metterla davvero in pratica. “Abbiamo bisogno di meccanismi di informazione che possano portare prontamente all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite” dice Simone Garroni, Direttore Generale di Azione Contro la Fame in Italia “tanto gli indicatori che evidenziano il momento in cui una situazione di insicurezza alimentare è sul punto di poter innescare un conflitto, quanto le prove dell’uso della fame come arma di guerra lì dove vivono le popolazioni, dove i campi agricoli vengono bruciati o dove pozzi, stalle o mercati vengono bombardati. Dobbiamo anche garantire dei meccanismi sanzionatori che siano efficaci e proporzionati a questo tipo di pratiche”.