A un terzo della popolazione mondiale, in queste settimane, è stato chiesto di isolarsi. E di farlo nella propria abitazione con acqua, elettricità, con un negozio di alimentari non troppo lontano, uno stipendio, con i propri risparmi. “Limitare” sé stessi è, però, un lusso inaccessibile per milioni di persone.
Azione Contro la Fame si occupa, ogni giorno, di donne, uomini e bambini che in Africa, Asia e America non saranno in grado di adeguarsi alla necessaria “distanza” sociale richiesta per evitare il contagio. Per loro l’economia informale, che prende forma lungo le strade, continuerà a rappresentare l’unica opportunità di sopravvivenza.
A Manila migliaia di persone proseguiranno la vendita di bibite ai semafori; quando termineranno la giornata, torneranno a dormire nei sobborghi della città, dove le acque grigie bagneranno ancora i loro piedi stanchi e nudi. Due – forse tre – cartoni saranno il loro unico mezzo per “isolarsi”.
A Bogotà, migliaia di migranti venezuelani continueranno a vivere sotto i ponti o negli affollati campi all’aperto. La chiusura del confine non impedirà loro di raggiungere la Colombia. La fame, infatti, non conosce confini.
Ad Aarsal, in Libano, le precarie strutture costruite dai rifugiati siriani sono state demolite la scorsa estate, perché abusive. Tante persone continueranno, così, a vivere all’interno degli insediamenti informali in spazi esigui con famiglie di sei, sette, otto persone.
Nei villaggi di Sélibaby, in Mauritania, come faranno a convincere le donne del luogo a smettere di cercare acqua in gruppo, quando la possibilità di stare insieme è l’unica forma di protezione per percorrere i cinque chilometri fino alla fonte?
Qui, in Europa, dovremo essere pazienti e disciplinati per spezzare la catena del contagio; la nostra frustrazione e preoccupazione è legata a ciò che accadrà domani. Nel Sud del mondo, dove non ci sono né luoghi per effettuare l’isolamento né alternative all’economia informale, si inizia, invece, a percepire una certa impotenza di fronte a un dramma inesorabile. E tutti gli sforzi saranno sempre non sufficienti per limitare il contagio, prendersi cura dei malati, alleviare le conseguenze socioeconomiche della pandemia.
Se mai questa crisi ci insegnerà qualcosa, sarà la certezza che il mondo sia più vulnerabile di prima e che l’umanità è, oggi, la nostra casa. Una casa che, al momento, ha un tetto fragile, che non ha né una porta né muri.
Aiutare chi ha poco, dunque, non è solo un atto di solidarietà ma diventa anche una forma di sopravvivenza: se perdiamo questa casa, infatti, dove ci isoleremo domani?
Simone Garroni
Direttore Generale Azione Contro la Fame