La crisi alimentare che di solito si verifica nella regione subsahariana tra giugno e settembre, quest’anno metterà 10,8 milioni di persone a rischio di fame.
Sebbene le piogge autunnali siano state migliori di quelle della stagione precedente, le difficoltà dei pastori di riprendersi dalle ultime crisi e le violenze in tre aree di confine (Niger–Mali–Burkina Faso, Lago Ciad e Mauritania–Senegal) aggraverà la stagione della fame nel 2019.
Una persona su cinque con bisogni umanitari nel mondo vive nel Sahel, ma questa zona riceve solo il 12% degli aiuti mondiali.
Anche in un anno con piovosità “relativamente buona”, milioni di persone – in particolare i bambini di età inferiore ai cinque anni – saranno ancora a rischio di fame grave tra giugno e settembre 2019, durante la cosiddetta “stagione della fame”: una condizione che si ripresenta ogni anno tra la fine delle scorte dell’anno precedente e il nuovo raccolto.
“Sono il 10% in meno rispetto al 2018, ma è inaccettabile che i bambini muoiano di fame a causa di un fenomeno prevedibile e annunciato, dato che dall’ottobre 2018 allertiamo la comunità internazionale con i dati sulle precipitazioni e le mappe satellitari della biomassa che attraverso il nostro sistema di allerta preventiva, indicano perfettamente dove e quando il cibo mancherà o i prezzi saliranno alle stelle”, spiega Lucía Prieto, responsabile regionale di Azione Contro la Fame in Mali e Niger. “Le regioni più colpite quest’anno saranno il nord del Senegal e la Mauritania meridionale, dove gli agricoltori non si sono ancora ripresi dalla siccità del 2018, i livelli dei pascoli sono critici e la popolazione pastorale ha iniziato la transumanza in anticipo, cosa che potrebbe provocare un’enorme pressione su altre aree” dice Álvaro Pascual, che coordina i programmi di Azione Contro la Fame in Mauritania e Senegal.
Azione Contro la Fame sta lavorando con i governi della regione del Sahel e con i donatori internazionali per attuare misure di emergenza che vadano a mitigare l’impatto della stagione della fame. Stiamo anche conducendo una campagna rivolta a soggetti istituzionali, come l’Unione Europea, per una migliore assistenza nutrizionale per i più vulnerabili e per cercare di minimizzare il costo umanitario delle violenze nella regione.
Il Sahel ha bisogno di un altro tipo di aiuti
“La comunità internazionale deve cambiare radicalmente il suo approccio per affrontare questa crisi, che si può evitare e prevenire. Da una parte bisogna agire molto prima che la situazione diventi un’emergenza e vediamo giungere ai centri nutrizionali bambini debolissimi e malnutriti. Dall’altra è necessario stabilire un forte legame tra i programmi di emergenza nutrizionale e quelli di sviluppo, che possono salvare vite ma anche generare resilienza attraverso la prevenzione e il recupero rapido”, spiega Menna Abraha, responsabile regionale advocacy di Azione Contro la Fame. “È fondamentale anche agire prima che la stagione della fame degeneri in una crisi alimentare”, continua Abraha. “L’anno scorso i fondi sono arrivati troppo tardi, molto dopo l’inizio del periodo più critico”. Tuttavia, anche qualora i fondi venissero stanziati, si potrebbe a malapena arrivare a coprire la metà dei bisogni umanitari rilevati nei Paesi del Sahel.
La violenza nella regione
Oltre alle carenze di finanziamenti, la piaga dei cambiamenti climatici e le siccità nel 2005, 2008, 2012 e 2018 hanno lasciato alla regione poco tempo per riprendersi da una crisi all’altra. Quest’anno poi si aggiunge una grave instabilità nella regione, dove alla proliferazione di gruppi armati si sommano violenze tra comunità che si contendono le risorse naturali come pascoli e acqua, sempre più scarse. “Non si tratta solo di Boko Haram sul Lago Ciad. In Mali, i pastori nomadi vedono i loro movimenti sempre più ostacolati dalla crescente insicurezza nel nord e nel centro del paese. Allo stesso modo, al confine tra Mauritania e Senegal, le tensioni tra comunità agricole e pastorali sta crescendo”, spiega Prieto. “La presenza dei gruppi armati e le conseguenti misure di sicurezza stanno inoltre rendendo sempre più difficile per le organizzazioni umanitarie raggiungere le comunità nelle zone di conflitto”.